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Un futuro da precari: riflessioni sulla riforma Bernini

Il mondo dell’università è stato recentemente interessato da alcuni provvedimenti del governo che hanno sollevato non poche preoccupazioni.

A luglio 2024 la bozza di decreto sul finanziamento delle università aveva ridotto di circa 500 milioni in corso d’anno i fondi per il 2024, sollevando le proteste della Conferenza dei Rettori (CRUI) e del Consiglio Universitario Nazionale (CUN). Questa riduzione è stata poi puntualmente confermata dal decreto ministeriale sul Fondo di finanziamento ordinario (FFO) del settembre 2024, che riduce di 173 milioni l’assegnazione dell’FFO e non assegna le coperture aggiuntive per i 340 milioni previsti dal piano per gli associati. Il risultato è stato che quasi tutti gli atenei statali del nostro Paese hanno avuto sostanziali riduzioni di fondi.

Sul piano del personale, oggi circa il 40% di tutto il personale docente e di ricerca delle università è costituito dagli oltre 20 mila assegnisti di ricerca e 9 mila Ricercatori di tipo A, anche a seguito della proliferazione di posizioni di ricerca finanziate con i fondi PNRR che non si capisce quali sbocchi lavorativi avranno. Nei prossimi tre anni intorno al 10% dei professori ordinari e associati andrà in pensione. Anziché favorire nuovi concorsi e sostituire così chi andrà in pensione, magari aumentando piuttosto che diminuire il personale stabile delle università, il governo ha rallentato il turnover e creato incertezza sul reclutamento. Più precisamente è stato posto dal governo il pesante limite del 75% del rinnovo del turnover ed è stata anzi richiesta la restituzione al governo  da parete degli atenei delle risorse risparmiate dal rinnovo del turnover limitato al 75%.

A proposito di politiche del personale, in agosto è apparso il disegno di legge 1240 presentato dal Ministro dell’università e della ricerca Anna Maria Bernini ed approvato dal Consiglio dei Ministri, per il Reclutamento o meglio per il cosiddetto ”pre-ruolo”. Il disegno di legge, secondo la ministra, risponderebbe alla necessità di colmare una lacuna storica nel sistema contrattualistico e borsistico della ricerca in Italia, soprattutto in vista dell’abolizione, a partire dal 31 dicembre 2024, degli assegni di ricerca che per lungo tempo hanno rappresentato una delle forme più diffuse e precarie di impiego accademico. Il DDL sembrerebbe dunque ispirato, almeno nelle intenzioni, dal tentativo di superare l’attuale ”inferno del precariato”. Cito infatti dal testo di presentazione del DDL: ”Il presente disegno di legge parte, dunque, dall’esigenza di rendere maggiormente attrattiva la carriera universitaria e di ricerca …”, ”… alla luce dell’importanza di rendere sempre più competitivo il sistema della ricerca, si è reso necessario predisporre un intervento normativo ad hoc che contrasti la dinamica precarizzante indotta dall’attuale sistema sia in termini di eccessiva lunghezza del percorso che conduce all’immissione in ruolo del personale docente e sia per la previsione di forme di tutela inferiori rispetto a quelle tipiche dei rapporti di lavoro subordinato”.

Tuttavia, di là dalle intenzioni, non mancano le critiche di chi vede nel disegno di legge l’esatto contrario di quel che si prefiggerebbe, e cioè ancora meno prospettive di lavoro stabile e meno tutele.

Infatti il DDL prevede una nuova jungla di figure precarie, che coinvolgono non solo i dottori di ricerca aspiranti docenti universitari, ma perfino i neolaureati.

Per prima cosa vengono previsti contratti a tempo determinato, denominati “contratti post-doc”, che hanno durata almeno annuale e possono essere prorogati fino a una durata complessiva di tre anni. Possono concorrere alle selezioni per l’attribuzione di contratti post-doc esclusivamente coloro che sono in possesso del titolo di dottore di ricerca. Questi contratti, forse unico elemento vagamente positivo nel DDL Bernini, sostituiscono gli assegni di ricerca (aboliti, come detto, dal 31 dicembre 2024) e sono un vero contratto di lavoro, anche se a tempo determinato.

Sono poi previste ”borse di assistenza alle attività di ricerca”, di durata minima di un anno e massima di tre anni, anche non continuativi, di tipo junior (finalizzate all’introduzione alla ricerca e all’innovazione sotto la supervisione di un tutor, riservate a laureati magistrali) e senior (finalizzate esclusivamente allo svolgimento di attività di ricerca, riservate a dottori di ricerca).

L’invenzione più discussa è quella della figura di ”professore aggiunto”, in favore di esperti di alta qualificazione, anche appartenenti al mondo professionale, finalizzati allo svolgimento di specifiche attività didattiche, di ricerca e terza missione. Questi ”esperti” sono assunti a contratto, di durata minima di tre mesi e massima di tre anni. I contratti sono stipulati su proposta formulata dal rettore al consiglio di amministrazione, previo parere del senato accademico e pubblicazione del curriculum del candidato nel sito internet dell’università. Ora si sa bene che il consiglio di amministrazione è un organo tecnico che non ha alcuna specifica competenza scientifica, la quale spetta ai soli dipartimenti, che, nell’assunzione dei professori aggiunti verrebbero completamente scavalcati. In sostanza queste figure di professore aggiunto, prive di qualifiche documentate, sarebbero assunte a totale discrezione dei rettori, senza alcun giudizio comparativo e senza alcuna verifica di natura scientifica. Una decisione che definire al limite dello scandaloso è poco! E inoltre la cosa non pare avere un effettivo senso, in quanto per i docenti esterni si possono utilizzare gli strumenti già esistenti dei professori a contratto.

In ogni caso, quali siano gli sbocchi lavorativi per le figure di contrattista post-doc e di borsista di ricerca senior, è un mistero, specie, come si è detto, vista la riduzione dei posti stabili per le limitazioni del rinnovo del turnover.

Nel complesso il disegno di legge sembra prefigurare un aumento dei posti precari nell’università, portando la loro incidenza dall’attuale, e già insostenibile, 40% di tutto il personale docente e di ricerca, a ben più di tale percentuale, arrivando magari al 50 o 60%. Si tratta di una esplicita volontà politica di precarizzare ancora di più il sistema universitario, con un ovvio abbassamento dei livelli di qualità e soprattutto della attrattività per giovani brillanti. L’obiettivo è chiaro: nessun intento di miglioramento della qualità scientifica, didattica e di terza missione, ma solo quello di far risparmiare quattrini agli atenei che, anche per mancanza di fondi governativi, iniziano a boccheggiare. Insomma l’università pubblica alla deriva e largo al privato, in particolare alle università telematiche care a certe parti politiche oggi dominanti, sempre beninteso che ci siano privati che nell’ambito della ricerca e della cultura propongano qualcosa di significativo. E ci si lamenta poi della fuga dei cervelli! Ma in questo quadro è il minimo che ci si può aspettare.

In questa situazione di obiettivo disagio, stranamente non molte sono state le voci di dissenso.

La CRUI, che, come abbiamo detto ha protestato per la riduzione dell’FFO, non ha preso posizione sul DDL Bernini. Anzi è giunta notizia di qualche rettore che ha preso posizione a favore del DDL, in particolare riguardo alla figura del professore aggiunto. E certo! visto lo spazio che si dà ai rettori di assumere professori aggiunti a loro piacimento.

Dottorandi, ricercatori precari e sindacati nello scorso autunno hanno protestato contro il DDL Bernini, ma le voci di dissenso pare si siano andate gradualmente affievolendosi. 

Significativamente invece un folto gruppo di associazioni scientifiche, di cui fa parte anche l’Unione Matematica Italiana, si è riunito nella ”Rete delle Società scientifiche italiane” che raccoglie 122 società scientifiche italiane. La Rete ha preso posizione contro i tagli alle università e alla ricerca prospettati dalla Legge di Bilancio 2025, contro il limite al 75% del rinnovo del turnover, contro i più gravi aspetti del DDL Bernini, ecc. La Rete ha anche proposto vari emendamenti al DDL, tra cui l’abolizione della figura di professore aggiunto. Speriamo che questo abbia qualche effetto, alla faccia di quelli che ritengono che l’associazionismo scientifico non serve a nulla.

Quello che sorprende è che, in tutto ciò, la voce dei docenti universitari di ruolo e, più in generale, quella degli ”intellettuali” sia praticamente assente. Ci stiamo davvero assuefacendo al peggio?

Ciro Ciliberto

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